Introduzione di Francesco Scarabicchi

Come un lume d'interno fulminato

Un poeta scrive sempre la propria storia e, insieme, quella degli altri, la storia comune che si dipana nelle vicende dell'esistere. Fin qui potrebbe essere una definizione pura e semplice che, a ben guardare, nel suo apparente dir tutto non dice niente. Potrebbe persino essere, questa una definizione buona per tutti gli usi e per tutte le circostanze. Un poeta scrive sempre la propria storia. Certo, se per propria storia» intendiamo l'attingere dalle situazioni personali, da quella che comunemente chiamiamo biografia». Ogni poeta ha la sua. Ogni poeta tiene in conto le proprie stagioni. E dov'e', allora, la differenza, lo scarto, dove si situa cio' che modifica tutto l'assunto della definizione e la fa, nel nostro caso, pertinente? A mio avviso, proprio nel punto per il quale, secondo l'adagio geometrico, passano tutte le rette: immaginiamo una stanza di casa, per esempio la cucina con i suoi mobili familiari e consueti, con i suoi oggetti, l'acquaio, le mensole su cui teniamo i barattoli del caffe' e dello zucchero, del sale fino e di quello grosso, i bricchi del latte o dei boccali di terracotta; la cucina con le sedie, i fornelli, la sveglia, la radio. Immaginiamo che, di sera, mentre noi siamo seduti a un tavolo, magari per il pasto o a sorseggiare una tazza di caffe', di colpo la lampadina che sta appesa sulla testa si fulmini. Proviamo a calarci dentro la situazione che ci vedrebbe al buio di quella stanza. Fermi li', nell'istante in cui tutto cio' che si vedeva non si vede piu'. Non si distinguono nemmeno i contorni della tazza. Immobili, per una frazione infinitesimale di tempo, sorpresi da quell'oscurita' improvvisa.
Si capisce, poi ci alzeremo, cercheremo una torcia elettrica o una candela e daremo mano a tutte le operazioni del caso. Tuttavia, quello che davvero interessa, nell'economia del discorso avviato, e' l'istante del buio, quel grano di tempo in cui il filo della lampadina altera il suo stato e non illumina piu' e noi siamo nel freddo e nel silenzio di quella tenebra. Cosi', immaginiamo che un poeta scriva la situazione illustrata. Nella maggioranza dei casi, come e' accaduto (le storie letterarie ce ne danno conto a non finire), fatte salve alcune rare eccezioni, parlerebbe, appunto, della disanimazione, del freddo, della paura, dell'ansia, della sventura.
Poi entrerebbero in gioco alcune generalizzazioni: le oscure cucine, la loro tristezza e desolazione, il silenzio di morte sopra le cose spente ed inerti. Si arriverebbe a formulare un giudizio del tutto negativo. Orbene, proviamo a considerare la cosa da un altro punto di vista, dal punto di vista di chi ha consapevolezza che la lampadina s'e' fulminata e quindi parla della sua situazione in quell'assenza di lume ma non si ferma, in una sorta di immobilita' irreversibile, a quel punto. Pian piano, nel buio comincia a cercare la soluzione del fatto andando a tentoni - e lo dice -, tastando il bordo del tavolo, la spalliera di una sedia, le pareti verso la porta, frugando nei cassetti per cercare un fiammifero, un mozzicone di candela e lo dice, ne da' conto; poi riferendo degli altri passaggi compiuti: la candela accesa, la poca luce che barbaglia e che gia' non e' piu' il buio compatto e fitto di prima, quella poca luce che consente di procedere cosi' all'altra stanza, la' dove e' conservata la lampadina di scorta, quella che sostituisce, infine, la lampadina morta, in quanto una lampadina morta non e' la morte di tutte le lampadine, cosi' come gli arredi e gli oggetti della cucina - la sua stessa identita', la sua storia - non sono spariti per sempre con lo sparire della luce, ma sono rimasti li', come prima dell'evento e al nuovo illuminarsi tutti vengono riconosciuti e ritrovati, uno per uno, distinti, identici, cari al riapparire.
Ecco la differenza. C'e' stata e c'e' una poesia che testimonia il buio, la stasi, l'essere immobile dell'uomo che perde la luce, la consapevolezza, la coscienza di se' in quanto uomo nel mondo e c'e' una poesia che invece traccia l'itinere dell'uomo che cade e segna il cammino verso la riconquista della luce, non tacendo nulla di se' a se'. Se per un attimo pensassimo che lo spegnersi di una lampadina non significa il cessare dell'energia che la alimenta, se solo lo intuissimo, saremmo gia' a buon punto e ci accorgeremmo di come ogni senso cui attribuiamo valore negativo e' invece altro da cio' che sembra. Persino il dolore, cui riconosciamo il privilegio del nero senza coglierne l'interna, intima energia.

Abbiamo fissato, lungo le linee dell'immagine, i tratti iniziali della poesia di Franco Scataglini, poesia di un uomo e, insieme, dell'uomo, poesia dell'umano nell'uomo, di colui che non dice il dolore come direbbe un mare morto o una palude stagnante, bensi' come colui che proprio da tutto il negativo della sua esistenza e' partito per procedere verso il chiarore di un mondo tutto in se' e insaputo, nato, all'origine, puro, nell'incontaminato del bianco proprio come la luce quando e' nella sua incandescenza, come l'alba.
Ogni poeta attinge dalla sua storia, seme per seme; succhi, umori e linfe d'una propria esperienza per non rischiare di dirsi nell'apparenza, per uscire dal mito ed entrare nel corpo e nel cuore dell'uomo che da' conto del suo essere non per rappresentazione, ma per testimonianza d'ogni qui e ora dell'esistenza. Scataglini e' colui che meglio e piu' d'altri ha inverato in poesia cio' che gia' era vero nella sua vita, proprio partendo dalla notte piu' oscura dell'anima , da quel nero d'interno che stravolge il senso globale di se' e del mondo, che fa vuoto ogni luogo e annulla identita', rapporti, affetti.
Da quel cuore di notte profonda s'e' mosso in una sorta di inizio desertuale, nello smarrimento e nella paura di chi, a sua insaputa, si mette in cammino per ritrovare quell'universo d'origine perduto nel quale finalmente riconoscersi per non piu' perpetuarsi nell'ignoto di se', intriso d'una inerzia che elude e differisce il tempo di una definizione.
Sulla base di un dato personale e pero' di obiettiva evidenza, ascrivo - per la prima volta - questo autore e questo libro di poesie a un universo che non fornisce visioni parziali nella casualita' della parola nell'ordine di una coscienza segmentata: che' Carta laniena non da' mai il senso di una identita' umana irricomposta e irricomponibile, al contrario essa nodula il corrispettivo esistenziale di una storia (compresa, fra l'altro, tra due date precise: 1977-1981) attraversata per intero e data per stazioni evolutive. Dal primo verbo d'inizio (sventare ) fino ad Esplumeor (che chiude la raccolta) e' tutto un segnar le tappe del percorso, che si sgrana e si fa in ogni attimo e situazione, in ogni istante del suo manifestarsi.

L'uomo di questa storia si e' espresso attraverso la parola della poesia, una particolare parola che e' poi la lingua che da se' si e' dato scoprendosi solo e muto nell'istante del buio, muto in quanto la sua condizione non gli consentiva nemmeno il minimo di voce, di identita', calato nelle spire dell'indefinito, ai margini di una apparente ed informe terra di nessuno dentro i confini della quale nulla sembra avere valore o senso proprio.
E' la condizione di chi consuma la sua vita ai bordi, sotto l'ipoteca di un segno che marca e cifra ogni ora del giorno: senza , in mancanza di, nel sottrattivo di una preposizione che e' simbolo e cifra di uno status : senza storia, senza patria, senza lingua, senza...
E' la stessa, identica condizione della madre descritta in Lauda anconitana» (So' rimaso la spina , Ancona, 1977), tutta nelle funzioni materiali del suo daffare domestico, negli atti esterni, ripetuti fino all'ossessione, gli unici che la dicano essere stata, che possano di lei attestare il passaggio in questa vita, i soli. E non a caso Franco Scataglini la offre, in clausola, proprio scandita da quella preposizione cui mi sono riferito: senza storia», priva di tutto cio' che l'avrebbe - in un condizionale ormai senza ritorno anch'esso - consegnata a se stessa, al suo sapersi e, quindi, al suo potersi dire. C'e' da domandarsi: muto rispetto a chi, oltre che a se'? A coloro che vivono sull'altra sponda (e per un attimo penso, contrapponendo la madre della Lauda», al rimbocco delle coperte proustiane, al bacio, al soffio sulla fiamma di candela, alla stanza da letto), sulla riva della cultura dominante e per i quali pare che il lume d'interno» non abbia mai a fulminarsi, coloro per cui le esistenze che si perdono nei loro senza non hanno peso ne' valore, in quanto la loro stessa cultura non le ha mai dette ne' tramandate, cosi' tutte senza volto ne' contorni, anonime ai margini d'ogni tempo e d'ogni societa'.
La condizione del muto e' quella di chi si sente alla deriva di nessun mondo e pieno di una domanda a cui non sa rispondere; troppo lontana la citta' felice (vista sempre negli specchi che la riflettono al di fuori e la allontanano) e mai ritrovata in se', nell'unico luogo dove tutto ha sede. Esistenze che si giocano tra l'essere e il sembrare, dentro l'agonia stretta d'un miraggio che al suo sparire e' niente, sabbia su altra sabbia, inesistente ogni palazzo di sale e sole. Muto rispetto alla coscienza di se', tra il proprio non essere e l'essere che e' sempre dell'altro. Una teoria interminabile di ignoti affidati in eterno al bianco di pagine che di essi non dara' mai conto, dissolti nell'impalpabile di una polvere fattasi nulla come il cuore di ognuno.

Franco Scataglini, in un momento preciso della sua vita, in una sorta di quinta stagione» non compresa nei lunari, di questo ha preso coscienza; in un lungo tempo di crisi nel quale ogni direzione era interdetta altro non sembrava poter sopraggiungere se non la morte, non quella fisica, anche se paventata, ma l'altra, quella dell'interiore homini che dentro ci fa cenere e aridi.
Sentirsi morto a se stesso nell'istante in cui ogni sole falla» come il lume di un interno. L'uomo di questa poesia che oggi e' libro testimoniale non ha ceduto; sebbene abbia sventato dall'albero di maestra, non s'e' lasciato in balia dell'onda piu' alta che poteva sommergerlo, ma con un atto estremo (fidandosi solo del suo non poter piu' resistere nell'angoscia di uno spazio senza confini e senza nome) ha intrapreso il viaggio della conoscenza in un'eta' difficile in cui solitamente (ma quanto l'avverbio tradisce, in questo caso, la sua natura e assume altro valore) ci si dispone a fare i conti del raccolto e si preparano gli attrezzi per la vendemmia.
Scataglini i suoi conti li ha riaperti tutti, troppo sproporzionato il rapporto tra le entrate e le uscite della sua vita fin li'. Ha intuito che altro andava fatto, che non era certo nel misurarsi con una cultura per niente imparentata con lui che si acquartierava il problema, ma prima e non fuori, non visto in un esterno falsante, apparenza d'altra realta' ben piu' complessa e, tutto sommato, sempre a lui estranea.

Restituirsi a se stesso, alla propria storia, ripercorrere la lunga linea delle radici profondissime sottoterra , le radici segrete e nascoste eppure tutte intatte, restituirsi consapevole alla propria parola anch'essa inconsciamente motivata e salda, se da piu' di vent'anni l'aveva scelta ed eletta a sua voce di poeta, diversa e antica, cugina di nessuna lingua eppure umana perche' non schermata fino dal suo nascere; restituirsi a se stesso per non andare piu' in bali'a degli eventi e delle situazioni, costantemente diviso e ferito, ma uomo che del proprio vivere conosce il bosco e la riva, in ogni istante del giorno, con sensi nuovi perche' di ciascuno ne ode la voce limpida come il rintocco d'una campana d'argento; non piu' nell'ansia di non sapere cosa e se avrebbe ancora scritto domani, poiche' si e' dimenticati per non aver detto, non per non aver pubblicato; non piu' vero solo nella poesia, ma in se', nella continuita' del viversi come uomo, senza puntelli o protesi, non piu' nell'indistinto delle contraddizioni e delle ambivalenze, insoddisfatto e discontinuo, alla merce' del piu' debole filo di vento, ma fedele a se stesso e al proprio mondo, capace persino di cogliere la verita' dell'attimo, la sensazione, l'unica che non sta mai prima ne' dopo, ma li' , goccia nella quale confluiscono tutte le iridi. A quarantotto anni, dopo due libri e tutta la sua storia intera da ripercorrere, non la sosta, ma la salita per finalmente dirsi al massimo della energi'a e potere andar sciolto (come aveva scritto prima, in So' rimaso la spina, clausola di Carcere demolito») in vita.
A quarantotto anni si avvera e realizza il bisogno cifrato in quel testo nodale per la comprensione della poesia di questo autore; ma in quel tempo e nei mesi che seguiranno egli non solo trovera' le risposte al suo esistere e al suo fare scrittura d'un vissuto, andra' piu' in la', superando un apparente orizzonte e potra' dar corpo e forma a un antico sogno, lo stesso che ritroviamo in E per un frutto piace tutto un orto del 1973 e in So' rimaso la spina , un sogno nutrito da sempre, che lo precede e di cui e' l'erede legittimo, uno di quei sogni che appartengono non ad un uomo, ma ad una storia di uomini muti, agli stessi che sono volto e sostanza della sua poesia, ai persi di Carta laniena . Se solo ci soffermiamo, per un attimo, al chiudersi di Corpo d'amore», la poesia ultima del secondo libro, rinveniamo una verita' di fondo da cui muove Scataglini, quella verita' semplice e umana, sempre presente nel quotidiano eppure non vista, la verita' che lo fonda e che, insieme, ci fonda tutti, se e' vero, che ciascuno origina da scomparse, che ciascuno e' , in se', il regno dei suoi vivi e dei suoi morti, cosi' come un fiocco di neve e', a un tempo, se stesso e tutta la neve.
Il rivolgersi di Scataglini alla sua lingua (nominata dialeto») dicendola uscita da l'infanzia», cinguettata dai morti sul colombaio di cimitero altro non e', a mio modo di vedere, che l'inconscia definizione di se' e del proprio stato. E poi l'infanzia, il tempo primo dell'aprirsi all'essere nel mondo, il tempo in cui il bambino (el fiolo ) ha visto e sentito su di se' la solitudine e la fatica, il bambino degli inverni col gelo che macchia le mani, lo stesso bambino segnato che assiste, attonito, al compiersi quotidiano di esistenze in cui appena brilla il remoto barbaglio di una vita viva anch'essa all'origine e ormai lisa nel farsi dei giorni uguali; il bambino di un interno di casa comune che del padre sa solo la tosse notturna e il cigoli'o del letto quando si alza per andarsene e che rincasa ad ore che mai si incrociano con le sue.
Il bambino che vede, sente e patisce la guerra che c'e' (e dentro la quale frana, sui suoi gia' plurali smottamenti, il mondo in cui vive) e' gia' testimone muto d'una vicenda ancora al sorgere eppure piena dei segni che saranno dell'uomo. Non certo alla compostezza d'un giardino d'aiuole coltivate somiglia la sua esistenza, ma piu' simile sente l'identita' di cio' che e' violato, compromesso, frantumato, di cio' che in se' porta la tara d'una crinatura insanabile che verte in altro la figura interna e il destino d' essa. Da quel suo tempo nasce la lingua che questa poesia parla, ma nasce come scrittura d'un sentirsi chiuso nel proprio destino mai riconosciuto e legittimato, vissuto come colpa e vergogna, come peso e condanna; nasce come lingua di chi in nessun altro modo che questo poteva e puo' testimoniare cio' che e' in quanto in nessun altro modo che questo egli l'ha esperito sulla propria carne e lungo i canali del sangue, in nessun altro modo che questo l'ha compreso alla luce d'una consapevolezza adulta e sapienziale che oggi illumina cio' che era vero anche prima.
Di se' e della sua dinastia di uomini persi egli sa ogni maglia, ogni ordito e ogni trama e non certo per averlo conosciuto attraverso la lettura, ma per averlo pagato e subi'to. E Carcere demolito» ci fornisce tutte le coordinate del percorso proprio nell'incipit della terza parte (Io so che 'na buiosa/e' tuto 'l vive d'omo ...), la' dove la tenebra fredda d'un carcere come esilio di classe si contrappone al senso davvero altro d'un essere liberi nella stessa condizione, come i gabbiani alti nel cielo di tramonto.
Essere cio' che si e' sapendolo per non piu' tradirsi nell'assurdo bramare di diventar altro da se' e quindi un astratto, glissato d'una identita' che si cerca nei luoghi della sua inesistenza. Tutto era anche prima: legami, affetti, valori e, fra tutti, la sua origine, quel punto principale che lo fa stretto ai vinti, ai perdenti, a coloro ai quali, nel buio di una vita indistinta e grama, priva persino d'ogni ragione del suo perdurare, altro non resta che soccombere e sparire nel silenzio che mai partecipera' della loro essenza.
Si snoda, lungo l'arco di un'esperienza espressa in parola di poesia, il definirsi d'una figura di fondo e di senso che gradualmente ricompone le parti della propria vicenda in grani d'attimi, ciascuno come microcosmo interno di quel vivere d'uomo di cui questa poesia e' forma. Proprio nel riattraversato d'una storia non mutuata da nulla, mai schermata ne' allusa, mai vista fuori, bensi' raccolta e unita, animata dal fiato vitale che la consegna alla sua irrepetibilita'. Ogni cosa e' avvivata da dentro, persone, luoghi, oggetti, atmosfere: seme del vivere e del patire, del gioire e del sentirsi franare dentro.

La poesia di questo libro nuovo articola il suo costituirsi su fondamenti d'una parola antica in quanto legata all'umano e non alla rappresentazione d'esso o, addirittura, alla sua negazione e abrasione. Nulla e' artificio o mimesis , nulla e' intenzione, ma tutto si fonde senza soluzione di continuita', congiungendosi nei punti di innesto per dare, intero, il senso del creaturale , che e' il pianto imparlabile d'una commozione senza alfabeto, battito del cuore, nel movimento e nel calore che soli pertengono alla vita dei sentimenti, la' dove essi pulsano e alimentano l'essere che ciascuno e'.
Questo e' quanto affiora nelle maglie di una storia per sempre uscita dai contorni d'una biografia intima a lui solo relata e divenuta, in piane parole de mestiere , l'indelebile forma di una sorte esemplare.
Parole della lingua delle origini» appuntai in un diario che tenevo nel '78. In essa intuivo, in modo informe, tutto il nuovo d'un antico nel quale uomo e parola si radicavano. Innanzi, frequentare Franco Scataglini, significo' entrare nel segreto della sua scrittura, e cogliere come il contenuto dei due precedenti libri fosse ancora una parte di cio' che nel procedere del suo cammino di conoscenza (all'inizio del quale avrebbe trovato l'uomo a cui e' dedicato Carta laniena ) egli stesse componendo. Lo sentii con chiarezza la sera che invitato a una lettura radiofonica dei suoi testi propose, tra gli inediti, solo Paganelli» e quella volta, in una stanza di trasmissione, vissi il senso ineffabile del pianto interno coinvolto per alcuni versi da un poeta che era tale, per me, in quanto a lui riconoscevo la capacita' d'avermi fatto autentico per un istante. Tutto in quella poesia corrispondeva: le parole che nascevano limpide al loro esser pronunciate, non impermeabili, asettiche, chiuse nelle implosioni che non consentono neanche il piu' sottile filtrare; lo scoprirmi toccato come non mai da chi faceva poesia del marginale del vivere, da chi dava dignita' di nome a quanto era anonimo inverandolo qui , tenendo in conto la sua vita, i luoghi in cui l'essere nel mondo si manifestava e consumava, spazio e tempo d'una esistenza non rimandata, anche se attraversata, fino ad allora, ne la disgrazia (anima de garbo'/che 'nt'un cortile spazia ), nel luogo stretto e minimo in cui il rapporto e' anch'esso con figure strette e minime del quotidiano. Ho assistito al dilatarsi di quello spazio, al purificarsi di scorie che ombravano e impedivano a quell'uomo e a quella lingua la pienezza e il chiaro che gia' erano all'interno e premevano per liberarsi. La lingua di chi non ha mai avuto voce, dei destini spenti al loro sbocciare.
La cultura nella quale ciascuno e' cresciuto non ci ha mai riferito di esistenze come Paganelli, bollate al nascere; ha, invece, per sua necessita' e costituzione, testimoniato cio' che poteva consentirle il perpetuarsi di privilegi e stati.
Quale mai logica le avrebbe fatto includere le storie dei senza storia»? Ogni narrazione remota o vicina parla di re e vincenti, ma non dice degli anonimi e delle vittime, di coloro che han sempre fatto tappeto per le glorie e i profitti altrui (Le donne, i cavalier, l'arme, gli amori,/Le cortesie, le audaci imprese io canto...», secondo l'incipit dell'Orlando ariostesco).

Nessuna corte e' mai morta davvero; nessuna signoria s'e' spenta, tanto che continuiamo ad avere vite degli uomini illustri» e ce ne guardiamo bene dal cogliere la verita' segreta di chi, cercando il suo paradiso (il luogo della propria pace e della propria identita' senza ipoteche o servitu') si getta dal piano quinto di un palazzo come l'angelo freak del testo di Franco Scataglini. Si da' nuova questa poesia in quanto restituisce d'ogni antico l'essenza piu' riposta e taciuta e porta in se' le stigmate di altre epifanie possibili e non piu' interdette; nuova perche' e' la scrittura di chi ha taciuto da sempre prima di potersi dire nella trasparenza d'un segno, nuova perche' proprio in questo tempo accade, in questi anni dove gli affetti si lacerano con un taglio di forbice netto e tutto e' nel mescolarsi indistinto di figure senza volto che decretano la perduta identita' di ognuno dentro una solitudine che ha solo il biglietto di andata; nuova in quanto nata nel lento farsi di chi non l'ha mai potuto prima, consapevole d'ogni nervatura del proprio stato e dello stato di ciascuna cosa che vive.

Una quartina di questo libro dice un pezzettino di porto visto dalla finestra di casa nel grigio della sua fisionomia, opaco, come un frammento di mare morto che, pur di non andare anch'esso verso il silenzio, si chiama in poesia per consegnarsi all'evidenza oltre le trame d'uno scomparire eterno. Se in quell'immagine cogliamo quanto di piu' profondo e' in essa, avvertiamo la paura relata ad un destino vecchio quanto il mondo che e' solo di coloro ai quali e' toccato in sorte di eclissarsi sotto lo sguardo ignaro di chi ha avuto i mezzi per continuarsi in altri lasciando traccia di se'.
Molte volte ho pensato, dopo aver vissuto per mesi con questa poesia corale, a chi avrebbe mai dato storia e presenza, per esempio, al padre di mi madre: uno nato nell'altro secolo, operaio, emigrante, rimpatriato dopo una fortuna mancata e giusto in tempo per morire su una banchina di porto di questa citta', nell'ora di un giorno come gli altri, quando il caso sciolse la fune di cantiere facendo crollare un pezzo di nave su di lui.
Molte volte ho pensato che non ci sarebbe mai stata altra riga se non quella della lapide, l'unica che lo dica passato e lo ricordi. Attraverso questo ci e' dato di cogliere la verita' che fonda Carta laniena e l'uomo che l'ha scritto rendendocelo possibile: dar voce, volto e dignita' umana a ciascuna cosa che e'» sotto il cielo perche' non sia cosa tra le cose gettate e astratte. Sottraendosi alla dimenticanza e all'oblio, Scataglini ci ha indicato la strada affinche' ciascuno ricomponga in se' le parti separate del proprio vivere d'uomo prima che un vento impietoso cancelli anche la piu' piccola orma dentro una morte irredimibile. Di questa consapevolezza Carta laniena e' parola e testimonianza, proprio nell'attimo in cui attesta ogni esistenza al suo terminale, in quest'ultima Thule che decreta in modo irreversibile il nulla per coloro i quali il vivere pesa piu' che il non essere. Dal residuale della sua vicenda egli si e' avviato sapendo solo cio' che non aveva e con la coscienza che nessuna notte dura per sempre, sia che l'inverno copra di gelo i vetri o l'estate respiri nell'intermittenza delle nuove lucciole agli orti.

Sfilate le imbastiture, l'abito e' fatto come il libro nella sua interezza; cio' che lo rende diverso dai precedenti e' solo lo spazio limpido d'una coscienza ritrovata e posseduta che fonda l'uomo e lo guida come la polare dei naviganti, rotta del vivere tracciata nei graffiti degli astri, eterna tela dal canto silente, la stessa, a ben guardare, che ritroviamo nella geografia stellare di Carta laniena .
Che l'altro cifrava quel sapore intenso di nostalgia, se non il desiderio d'un essere di nuovo la' da dove si era partiti, quel sibilante nostos , struggente brama del ritorno dove all'apparire tutto e' come l'abbiamo lasciato, nella dimora interna perduta (sentiero nel bosco) e con lei smarriti gli altri sensi? Nessun buio e' piu' forte del buio d'anima ma nulla scompare in esso, sebbene crediamo sia, lo smarrimento che ci avvolge, la sola cosa che resti.
Mediante questa lingua che e' il calco di assenze ed eclissi, di ripetute mancanze e di perpetuati sacrifici, noi perveniamo a comprendere il senso che la imbeve e che ne e' linfa: la possibilita' di edificare una societa' di uomini liberi e salvi, ciascuno compiuto in se' e di farlo nel luogo del loro esistere, patria d'un dipanarsi incessante di istanti dove sono le radici e i segni incancellabili, le famiglie da cui proveniamo. Il luogo in noi, residenza che siamo, ciascuno con la propria stigmate, ciascuno necessario a se' e alla storia a cui appartiene cosi' come ad ognuno ogni luogo dell'essere e' indispensabile, persino la gabbia d'uccelli vuota e con il piccolo sportello aperto, sola al suo gancio di muro, nella luce che filtra fra le assicelle al patino di una rosa che le vela, essenziale, immota, metafora di un'attesa a cui non ci si nega.




(Ancona, agosto 1981 - luglio 1982)