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LA PIANTA DELLA POESIA
Conversazione con Franco Scataglini
a cura di Davide Rondoni
in "clanDestino"
anno V numero 4 ottobre-dicembre 1992, Nuova Compagnia Editrice,
Forli' (Rivista).
1. Ci pare sempre piu' evidente che un
poeta si differenzia da un altro - ancor prima che per gli esiti
stilistici raggiunti o gli argomenti trattati - per il tipo di
attesa che vive rispetto al suo gesto poetico.
(Le dico questo perche' incontrando la generazione dei poeti
quaranta-quarantacinquenni abbiamo notato che alcuni di essi
vivono il "fare poesia" come espressione armonizzante
e risolutiva, quasi si trattasse di un elemento finalmente strappato
alla drammaticita' del vivere. Tutto questo ci impressiona anche
perche', se riandiamo ai poeti oggi settantenni che gran parte
della nostra generazione riconosce maestri (Luzi, Caproni), ci
accorgiamo che nessuno di essi ha mai fatto della poesia un "mito".
D'altro canto ci siamo imbattuti - con sorpresa - in altri per
i quali la poesia e' il momento piu' vero, reale di qualcosa
d'altro da se').
A questo proposito, una delle domande cui abbiamo visto sfuggire
spesso i poeti intervistati e' "a cosa serve il gesto poetico
che si compie?" Vorremmo riproporgliela..
E' una domanda questa che ha messo molto in difficolta', come
se la poesia, di fatto, appartenesse al momento assolutamente
inconscio, assolutamente separato e separabile dalla vita. Ci
spaventa tutto cio', innanzitutto perche' lo riconosciamo vero
per noi; d'altra parte riteniamo che il concepire la poesia slegata
da qualsiasi servitu' rispetto al vivere sia uno dei motivi per
cui oggi essa non interessa, cioe' non entra, non c'entra con
la vita della gente.
La risposta non puo' essere lineare; e' stratificata. Innanzitutto
v'e' nella inclinazione alla scrittura un dato pulsionale. Da
bambino riempivo quaderni interi di caratteri: prima ancora di
imparare a scrivere avevo questo bisogno di caricare su dei segni
insignificanti tutta una mia affabulazione interiore. Questo,
dunque, come dato primordiale: una pulsione che ci pre-cede e
di cui sicuramente sappiamo poco. Uno se la trova addosso ed
essa a poco a poco costruisce il destino di quell'uomo nel senso
che tutte le scelte che egli verra' via via facendo nel corso
della sua vita saranno sempre legate a quella pulsione. Vi e'
quindi nell'artista un discorso che e' sempre in atto, che non
lo abbandona mai e che "si vien facendo - come diceva Caproni
- a ruota libera". Ho l'impressione che la poesia nasca
in noi come una pianta (e' una banalita' pero' e' vero); come
se il suo sviluppo fosse tutto interno, implicitato e necessitante.
Allora, se e' cosi' anche la forma e' legata forse a oscuri ritmi
profondi...
L'altro aspetto importante e' il senso; colui che scrive si chiede
ragione del suo fare poesia. Accanto al "perche'" del
gesto poetico sussiste la domanda del "come" realizzare
tale gesto, problema non meno importante. Considero la metrica
e la rima dei mezzi per compattare il testo: come se si lavorasse
con delle pietre: il Roman de la Rose parla di pietre
ben sette e ben connesse».
Anche il processo stesso della scrittura aiuta a rispondere alla
domanda che mi ha posto. Processo inteso come approssimazione
non si sa a che cosa, in quanto l'oggetto non e' mai ben definibile;
un impulso, un sentimento puo' trovare come puo' non trovare
subito la propria forma. Di fatto certe cose nascono a distanza
di anni, non si capisce perche' sia cosi'...
Questo spiega perche' e' impensabile una poesia fatta esclusivamente
di "ratio"; il gesto poetico non lo si puo' assimilare
a un processo scientifico in quanto non totalmente sintetizzabile,
scomponibile e ricostruibile come si fa in un laboratorio. Sostanzialmente
credo che la poesia sia una sorta di riflessione sull'esistere
(che non e' filosofica perche' figurale), una riflessione che
passa attraverso quelle vie in parte segrete che ci legano al
mondo intramandosi a tutte le diramazioni dell'umano. Io non
potrei capire niente di me e della vita se non avessi scritto
poesie. Se poi l'altro - attraverso la mia scrittura - fa la
stessa esperienza, io ne sono felice.
2. Su cosa sta lavorando ultimamente?
Ho rielaborato con assoluta liberta' i primi 1600 versi del Roman
de la Rose di Guillaume de Lorris; li ho riscritti nel mio
dialetto (l'anconetano, ndr). Non si e' trattato di un'operazione
, ma di un'avventura. Mi sono attenuto al testo attratto non
tanto dai datati contenuti allegorici quanto dalla "visione".
Entro quest'anno dovrebbe uscire per i tipi di Einaudi.
3. E' sempre piu' netta l'evidenza di
una difficolta' di adesione della lingua italiana odierna (intesa
come lingua letteraria) all'espressione poetica. (Oggi un ragazzo
che comincia a scrivere e che si arma della lingua di montale,
o di Luzi o di Caproni, ma anche della lingua della neo-avanguardia,
parla gia' una lingua incomprensibile; e' un dato questo per
noi ormai evidente).
Accanto a questo sussiste - al di la' di certe mode - da una
parte la scelta dialettale - profondamente stratificata, diversificata
a seconda delle esperienze - dall'altra sporadici tentativi di
lavoro, di sperimentazione sulla lingua, di rifiuto di una lingua
convenzionale gia' codificata, sia in prosa che in poesia. Noi
crediamo che questo sia un problema cruciale, oggi. Ora, lei
avverte tale questione e, in secondo luogo, sente esaustiva,
risolutiva del problema la sua personale opzione per il dialetto?
E' vera una cosa: la lingua in senso universali (ci) pre-esiste,
non ci include, non ci comprende. In un'epoca di convenzioni
stabili, la lotta e' dentro la convenzione per arrivare alla
propria cifra di individualita'. Grosso modo la spaccatura si
verifica in Italia intorno agli anni Cinquanta, quando compaiono
le poesie casarsesi di Pasolini. Pasolini non e' gia' piu' un
poeta dialettale; porta con se' l'idea, sebbene implicita, di
una rottura delle convenzioni. Egli attuera' un recupero della
lingua italiana ma sara' un recupero strano, tradizionale e anomalo
a un tempo. Compiranno un'operazione uguale e contraria i Novissimi
alla ricerca di una lingua tecnologica; una lingua letteraria
nuova e insieme di recupero delle forme piu' complicate ed elaborate
in Sanguineti e una ricerca dentro la struttura del linguaggio
poetico in altri, nel tentativo di aprire la poesia alle forme
della realta' quali si configuravano negli anni Sessanta. Questi
anni dunque segnano un momento di profonda frattura. E' come
se la lingua letteraria che aveva raggiunto ormai il suo assetto
definitivo con il Petrarca e non faceva che variare - come nella
musica tonale - indefinitamente le proprie forme, non fosse possibile.
Non dobbiamo dimenticare l'incidenza del pensiero strutturale,
linguistico, psicanalitico di quegli anni: penso a Lacan.
Quando si parla di poesia neo-dialettale si deve intendere quel
poeta che ha una profonda coscienza della propria diversita';
non e' piu' la consapevolezza che poteva avere un poeta dialettale
della prima meta' del secolo. Egli e' cosciente di cio' che fa
non perche' ha un ambito circoncluso di esperienze e di lingua
che si costituisce come micro-universo rispetto alla letteratura.
Egli ha la consapevolezza di stare nella lingua come "alterante",
come colui che fa "diffrazione" all'interno della lingua
stessa. Avendo io un dialetto molto simile all'italiano, questo
si evidenzia perfettamente perche' e' sufficiente l'assenza di
una doppia in una parola ad alterare non solo la scrittura ma
anche il suono. So che ogni minima alterazione produce dentro
il corpo della lingua una serie di nuove modulazioni che danno
conto di cio' che e' precipuamente mio. Quindi il dialetto e'
forse oggi uno dei mezzi possibili che il poeta ha di trovarsi
un idioletto bell'e' pronto - fermo restando che, se e' uno scrittore
serio, si trova ad affrontare i medesimi problemi di colui che
questo idioletto se lo fabbrica all'interno della lingua.
Per concludere direi che la scelta dialettale e' una delle potenziali
risposte: essa non va ne' esaltata ne' depressa. Cio' che da'
conto della sua validita' e' l'esito da cui non si puo' prescindere.
Esiste invece in questo campo una grande confusione: mentre per
lo scrittore in lingua si parla subito di estetica, quando si
prende in considerazione uno scrittore dialettale, si comincia
dalla linguistica per finire con la sociologia...
4. Ci pare di intravvedere in alcuni
poeti - soprattutto dell'ultima generazione - una riscoperta
dell'andamento poematico. La cosa ci lascia, a dire il vero,
piuttosto perplessi; e' una afferenza alla tradizione anglosassone
rispetto a quella francese, tuttavia a noi pare il piu' delle
volte una "moda", un'impalcatura costruita intorno
al fatto poetico, non un assetto sorgente da una reale esigenza
interna del poeta. Lei cosa ne pensa?
Per risponderle torno indietro di sei secoli. Dante quando scrisse
la Vita Nova ha un andamento poematico; cosi' pure quando
scrive il Convivio e le Rime. Tuttavia nessuna
di queste tre opere e' la Divina Commedia, summa di queste
esperienze e qualcosa in piu'. In sostanza credo che ogni poeta
scriva il suo poema. Anche le Occasioni e gli Ossi
di seppia sono poemi in quanto, sebbene composti da molteplici
sequenze, vi e' al fondo un iter narrativo implicitato; sono
storie che vengono raccontate. Il poema e' come una sinfonia
nel musicista: in altri termini e' il momento culminante di un
apprendimento, di una esperienza molto articolata.
Malgrado cio' ho l'impressione che la poematicita' di questi
anni si possa identificare con la effusivita' verbale che per
me e' il segno piu' deleterio della caduta della tensione poetica.
Quando non trovo in una poesia l'intensita' della struttura verbale,
ne perdo il senso, non so piu' cosa significhi quel mucchio di
parole. Per me la poesia ha una struttura granulare, e' fatta
di entita' discrete legate indissolubilmente le une alle altre.
E' come la composizione di un mosaico: tessera per tessera.
5. Parlando con autori provenienti da
tradizioni ed esperienze diverse e' spesso emersa - con nostra
sorpresa - la figura di Carlo Betocchi, una delle voci a nostro
parere piu' interessanti del Novecento poetico italiano non ancora
pienamente riconosciuta dalla critica ufficiale...
Ora e' in atto questo
recupero. Betocchi e' un grande. Dobbiamo rileggerlo al di fuori
degli schemi che ci hanno imposto. La sua poesia e' una poesia
di grande respiro naturale.
6. Ci puo' accennare al rapporto da lei
vissuto con Betocchi?
Betocchi ha rappresentato il mio primo riconoscimento; ebbe modo
di accorgersi di me la prima volta in occasione della pubblicazione
di alcuni miei testi sulla rivista marchigiana "Il Leopardi".
Quindi curo' l'introduzione del mio secondo libro di poesie.
Da allora ci scrivemmo per quasi sei anni. E' stato sicuramente
un rapporto di profonda stima e amicizia. Di filialita' da parte
mia, qualche volta di paternita' da parte sua. Ho di lui un ricordo
incantevole. Lo testimonia pure il carteggio epistolare pubblicato
dall'"Obliquo" a cura di Massimo Raffaeli. Penso che
Betocchi sia uno dei pochi autori italiani in possesso di una
lingua concreta, solida, forte, senza melismi ne' inteneriture.
Lui era un geometra e io ho l'impressione che componesse le sue
poesie come si costruivano i muri una volta: mattone per mattone.
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