Introduzione di Plinio Acquabona

Sia che si pensi al sistema linguistico del dialetto, diffuso in aree determinate, sia che si pensi al vernacolo, definito come linguaggio relativo agli schiavi nati in casa, e percio' interno a dette aree; in entrambi i casi, ove ci si ponga il problema della loro formazione, si vedra' una componente comune data dai linguaggi veri e propri che, nel caso del dialetto, e' una struttura linguistica autonoma, mentre in quello del vernacolo, germinazione paesana e domestica, e' una struttura linguistica derivata dal dialetto stesso o, come nel caso dell'anconitano, dalla lingua nazionale.
Ma accanto alla componente data dalle singole strutture codificate, che rappresentano la costante del contributo umano in continuo apporto, va considerata la componente ambientale, anch'essa in continuo apporto, che influisce sul coordinamento delle capacita' ricettive stimolandole a ripetere e a produrre il linguaggio secondo un'autentica sensibilita' guida, nonche' a conservarlo in questa stessa sensibilita' incubatoria.
Il dialetto e il vernacolo sono dunque un patrimonio culturale che non necessariamente si tramanda per iscritto: un patrimonio che, trasmettendosi verbalmente, si trasmette in virtu' della sensibilita' guida ambientale che corrobora la memoria linguistica. Ed e' questa sensibilita' guida che sottende la forza inventiva, a favorire lo sviluppo dei vernacoli, rivelandoli come una tendenza all'emancipazione linguistica, nella quale e' implicito lo spirito della terra che avvalora le diverse individualita'. E questo rapporto metafisico e' tanto piu' forte tra l'uomo e la terra in cui e' nato, come se nella terra sussistesse una condizione placentaria ad agevolare la sua evoluzione.
Cio' che indubbiamente ha favorito il formarsi dei dialetti e' stato il permanere degli uomini nel loro alveo ambientale, il che ha consentito l'accumularsi dei materiali linguistici, il loro definirsi in strutture diversificate, e la loro sussistenza nel tempo.
A causa del mutare delle condizioni di vita, per cui gli uomini vengono centrifugati dai loro ambienti naturali, pero' sembra che si sia giunti al momento in cui i dialetti si avvieranno a perdere la propria funzione d'amalgamare gli uomini alla terra e di cedere alla lingua nazionale in avvento, che gli attuali mezzi di comunicazione possono portare agli italiani in una lezione quotidiana alternativa e vantaggiosa ai fini della comunicazione generale nell'area nazionale.
Questo trepido allarme Franco Scataglini intende smentire con la propria raccolta di poesie E per un frutto piace tutto un orto, titolo interamente co'lto da uno stupendo verso di Jacopo da Lentini. E il modo in cui attua la sua operazione creativa e' quanto mai consapevole dell'importanza che il discorso sulla linguistica e' venuto assumendo. Infatti l'interesse che l'etnografia suscita, che e' vivo anche nello stesso Scataglini, evidenzia sempre piu' la posizione antropocentrica dell'uomo, percio', contro la tendenza al livellamento linguistico, egli prende posizione esprimendosi con un contesto che in prevalenza e' vernacolo anconitano arricchito di elementi del linguaggio trecentesco.
L'impasto che ne risulta e' di una preziosita' familiare tutta personale. E se di preziosita' si puo' parlare, e' per la grazia levitante dei recuperi lessicali e, trattandosi di vernacolo, e' un ricondurre, a distanza di secoli, acqua colata alla stessa fonte della lingua e un riconfonderla a questa da cui discese. E se si puo' parlare di familiarita', e' per una concomitanza di elementi ispiratori ieri e oggi naturalmente familiari che, come s'e' visto, oltre ad aver suggerito la definizione del vernacolo, nella sua poesia acquistano una perentorieta' che qualifica la sua risposta inequivocabile alle inclinazioni riduttive dei tempi.
Quindi, non che scomparire come espressione inattuale, in questa esperienza il vernacolo si reinnesta come poesia nel cuore della lingua per la salvaguardia di valori spirituali individuali e collettivi. Giustamente il Leopardi dice che il fabbricare, per cosi' dire, sul fondamento delle opinioni popolari fu sempre lecito ai poeti, anzi fu sempre a loro prescritto». E scelta linguistica, nel caso di Scataglini, equivale a fondamento.
Quanto precede avra' gia' edotto abbastanza il lettore sul tipo di operazione realizzata da Scataglini: una fine operazione culturale effettuata sulla conoscenza e, inoltre, cosa non comune in questo campo, sulla sperimentazione scritta di analisi strutturalistiche che hanno finito per sollecitarlo a riprendere un impegno creativo avviato e sospeso. Sperimentazione interessata al recupero di una precisa coscienza critica, non invano lungamente esercitata anche attraverso l'attivita' saggistica.
E' opportuno ribadire la profonda consonanza tra il vernacolo usato e l'oggetto della sua poesia, ch'egli definisce espressione di un'esperienza privata, nel senso d'un stretto rapporto con le cose. Ed e' proprio dalla genuina domesticita' di certi argomenti prevalenti che l'originalita' guadagna spicco.
Quel che Scataglini rinvia ai maggiori poeti veneti per la similarita' del livello attinto e, al tempo stesso, lo distingue e distanzia dai poeti vernacoli locali, e' il carattere cólto della sua scrittura e l'asciuttezza dello stile che gli consente una scansione piuttosto epigrammatica. La tensione epigrammatica e' la prova di un'attitudine al taglio energico, dimostra una vocazione all'essenziale che gli permette di mantenere un rigore critico costante, per il duplice apporto della poetica e della decantazione della materia.
In quanto alla poetica, l'esprimersi in brillanti quartine di senari e di settenari, rimate puntualmente, e l'evitare il facile risultato rammemorabile, per Scataglini significa essere riuscito a trovare un ritmo secco che sollecita l'attenzione alla materia, costretta in un'angolazione che esclude decisamente ogni frangia marginale del sentimento, favorendo invece il primo piano, la visuale zumata. E tali esiti non sono sporadici.
Non per nulla ho parlato di naturalezza, di consonanza tra l'impasto linguistico stabilizzatosi a monte e le cose; consonanza capace di suscitare quella simultaneita' di rapporti remoti e attuali, interiori ed esterni, come se le cose si vedessero in proprio: in una dimensione reale, ma non realistica, che, in virtu' della cultura, offre le cose come singole pluralita' di contenuti i quali, nel mezzo linguistico usato, assumono la lucentezza prospettica che lungamente li individua nell'arco dell'invenzione.
Dino Garrone scopre che Ancona e' una citta' di mare dove le pietre soffrono di non poter partire». E per incentrare la condizione esistenziale di Scataglini, basti vedere il mare, come paesaggio-comunita', che, dopo aver diffuso i cerchi suscitati dall'immersione di un coco», sua presenza, ritorna de sasso», indifferente. E al messaggio del libero cocale», il gabbiano, la parola gli resta chiusa in gola, inesprimibile. La citta' gli appare come una voce senza figura», e per questo la sua sofferenza diventa piu' acuta. L'andare mattutino lungo il molo e' come quello d'un viaggiatore che ha perso la sua nave». E fra le mura, davanti alla pagina, si sente un albero seminato dal vento, ormai radicato.
A tale staticita' non puo' che opporsi la spinta dinamica dell'amore. La scoperta e' fulminea. Si veda Cosi' era Euridice. Quante vicende in cosi' breve spazio e, al tempo stesso, la leggerezza del nodo in un capello.
E poi, tutta la complessa linea delle varianti al tema: dal silenzio creativo d'immagini all'imbarazzo adolescenziale di non saper dove andare insieme; dal rubarla di sotto la vestina d'estate» a quell'autentica perla che e' Come un'oliva tonda. Quindi si diffonde in un alone di figurazioni limpide, proprie del primo stupore al realizzarsi del sogno. Seguono i tempi dell'esperienza bruciata tra l'incredibilita' che il possesso costituisca una colpa e la colpa certa del distacco.
A questo punto, la pena diventa profonda; in essa gli atti ritornano come boomerang» che hanno colpito e che continuano a ricordare la colpa, chiara. E componimenti come Un'antiga obedienza, ed altri, tracciano l'arco d'una macerazione di alta conoscenza umana. E amarezza, rimorsi, fuggevole offuscamento suicida. E lancinanti autoanalisi tra recuperi di purezze paesaggistiche, sempre in chiave simbolica; recuperi d'orizzonte, immagini dello spazio che si richiude su una rappresentazione drammatica dove il toro, si legga la poesia Io so' `sta vita esplosa, cui e' stato sparato il chiodo mortale in fronte, diventa l'immagine amarissima d'una realta' che alla necessita' della sopravvivenza biologica pone l'alternativa della morte e che, in connessione omologa, fa disperdere il poeta.
D'ora in poi, il suo sguardo diventa fisso. I termini di un suo rapporto con il mondo si sono invertiti. Egli rappresenta ora il ciglio del mondo e la donna la voragine. Ma la sua sensibilita' reagisce ancora in rapporto agli oggetti: tra i diversi momenti indicati come nodi della rete che l'avvolge, tanti altri acquistano rilievo, sapore, colore, significato. Una certa tenerezza s'avverte, un preludio alla pacificazione. E' la fiducia restituita dalle cose.
E c'e' l'ultima emergenza metafisica: El senso del mio testo ispirato da La vocazione di Matteo» del Caravaggio. Sin dalla descrizione del quadro, si nota la sua sorprendente partecipazione alla vicenda raffigurata. Gesu' chiama Matteo che con l'indice si indica per averne la conferma; e gia' la sua faccia splende di passione. Quel che tormenta il poeta da sempre, e' l'attesa della stessa chiamata; per cui, la remora, in opposizione alla sottolineatura di Matteo, fa si' ch'egli si senta cancellato.
Questo autentico perseguire un'alternativa radicale, e' la riprova ultima che la ricerca di Scataglini non si appaga di parole, d'immagini, di esercizi linguistici, ma si conclude come una ricerca di verita' e d'assoluto.