Gli incontri di POESIA Franco Scataglini e Marco Ceriani in "POESIA" - Anno II - n. 2, febbraio 1989. Crocetti Editore (Rivista) Ceriani. Vorrei leggerti - per cominciare questo nostro incontro - un passo dell' " imperdonabile" Cristina Campo perche' ho l'impressione che debba in qualche modo riguardarti, riguardare il tuo lavoro: "Una spirituale devozione al mistero di cio' che esiste e' stile per virtu' propria, come dimostra l'ammirabile linguaggio, oggi in via di estinzione, dei contadini. Un poeta che ad ogni singola cosa, del visibile e dell'invisibile, prestasse l'identica misura di attenzione, cosi' come l'entomologo s'industria a esprimere con precisione l'inesprimibile azzurro di un'ala di libellula, questi sarebbe il poeta assoluto. E' esistito ed e' Dante. Altri toccarono queste forme di attenzione plenaria in altri momenti". E altrove: "Che cosa e' stile? La prima immagine che si presenti e' questa: una virtu' polare grazie alla quale il sentimento della vita sia nello stesso tempo rarefatto e intensificato. Cosicche', grazie a un movimento simultaneo e contradditorio, la' dove l'artista concentra al massimo l'oggetto riducendolo, come i pittori T'ang, a quell'unico profilo, a quella pura linea dall'alto al basso che e', per cosi' dire, la pronuncia stessa dell'anima, il lettore lo senta in se' moltiplicarsi, esaltarsi in armoniche innumerevoli". Ora, mi pare proprio che le qualita' primarie del tuo lavoro risiedano: uno, in una ossessiva attenzione, di volta in volta mercuriale, dura, sprezzantemente icastica (attenzione, anche, come forma dell'astrazione), e due: nella scrittura che ne consegue la quale, radicalmente, tende a concentrare il discorso: un metodo tirannico, violentemente ellittico, che consiste nel voler, passo a passo, potare l'albero allo scopo di renderlo sempre più ' rotondo. Un metodo che tende all'autodistruzione (niente compiacimenti), alla suprema prova della rinuncia, al voto di castità, all'obbedienza, alla povertà , ottenute con "dure vigilie notturne". Ti vorrei fare alcuni nomi al proposito: i mistici, Teresa d'Avila, San Juan de la Cruz, Jacopone, l'ambasciatore del mondo muto Francis Ponge, ma anche più ' sconosciuti e remoti artigiani, dai pittori d'icona ai maestri ebanisti. Scataglini. Leggo assiduamente i mistici. Vi
trovo le linee maestre di una psicologia sperimentale della Trascendenza.
Le opere di alcuni di loro, e penso ai mistici del Cinquecento
spagnolo, come San Juan de la Cruz, sono veri e propri trattati
di una pratica dell'Assenza, rigorosi sistemi di approssimazione
a quel vuoto d'anima in cui piu' niente di immaginario puo' piu'
essere gettato, nemmeno dio. Queste letture, queste frequentazioni
possono dar conto in qualche modo di quelle che tu chiami "le
qualita' primarie" del mio lavoro? Ti rispondo con un'altra
domanda: cos'era necessario che io leggessi? Cio' che ho letto.
Cos'era necessario che non leggessi? Cio' che non ho letto. Allo
stesso modo: cos'era necessario che io scrivessi? La risposta
e' pleonastica. Ho trovato i temi e i modi della mia poesia serbando
i dati d'esperienza riconosciuti significativi della mia attenzione
febbrile. Perche' la scrittura prima di essere segno e' inquietudine,
stato mosso dell'anima che solo nel gesto appropriato e nel modo
appropriato di quel gesto trova la sua pacificazione attuale.
Solo attuale, si capisce. Poiche' poi tutto ricomincia. Simone
Weil dice che una vera preghiera e' un farsi della preghiera
in noi. Non si puo' pensarlo della poesia? Che un'idea in qualche
modo preesistente di forma abbia vagliato ad uno ad uno pensieri,
figure, nomi, suoni, metri, ritmi? Prima ancora di cominciare
a scrivere versi io dicevo a me stesso e ai miei amici: vorrei
fare poesie turrite come i castelli di Klee. Turrite e trasparenti
come le sue rocche di cristallo. Avevo in mente una grafia primaria
in cui segno ed immagine fossero congiunti nei loro virtuali:
una grafia dura, spigolosa, aspra ma diafana. Bisogna vedere
la luce delle mie parti per capire quello che intendo. Certi
giorni, verso la campagna, all'orlo della costa alta sul mare,
la luce prosciuga i corpi nell'immobilita ' di una materia estasiata:
una sensazione di purezza dolorosa si accompagna alla visione,
inassimilabile all'interiorita' quanto l'immagine riflessa in
uno specchio lo e' al vuoto nitore del suo supporto. Il centro
di questa sensazione cela come un granulo di desiderio senza
oggetto a cui si svelano i nudi rapporti dell'anima con le cose
e delle cose tra loro in una nitida gerarchia di ordini. Questo
effetto di purezza e' anche effetto di poverta', come se nel
dominio incontrastabile della luce i corpi non fossero piu' di
sassi d'una grava. Ceriani. Accennavi alla poesia delle origini. Leggendo i tuoi testi ho proprio l'impressione di trovarmi di fronte a una lingua delle "origini"; anzi piu' che a una lingua, a una sequenza di suppellettili, piccole anfore, cocci, di abbagliante nitore, interroganti dai loro oscuri antri - e lasciati sfilare con impassibilita' clinica (tali i tuoi termini "culti", le tue asciuttissime e sentenziose punte idiomatiche), disposti in ordine su uno sfondo afono (le occorrenze che l'anconetano, in questo caso, induce di parole appunto italiane, giusta la prossimita' del tuo dialetto alla lingua, parole notarili, consumate come quelle che nei registri mercantili, negli inni religiosi, nei formularî o nei libri di sapienza sfilano l'una dopo l'altra con stregante e mortuaria musica). E' forse una lettura "pro domo mea" che non so fino a che punto ti puo' trovare d'accordo, ma ho la netta sensazione che, nel suo farsi, il tuo sia un esercizio di sottrazione dei piu' severi, che una sottile e pensosa avarizia ti disponga in condizioni di "distanza" e disponga i tuoi reperti "en abyme", in modo da permetterti l'eccesso minuzioso e la ferrea lucidità, la dolente acutezza e l'immobilità da libro d'ore, i soli caratteri in grado di stornare dai testi l'"inganno ottico", la "pandemia del sentimento". Scataglini. Sì, forse mi leggi davvero
"pro domo tua". Come non potresti? Mi adombri attraverso
il tuo stile, nel modo che tu hai di costruirti l'analogon
del mondo. Per quanto mi riguarda, io posso dirti che la mia
e' una poesia della figuralità allegorica, non dell'analogia.
La metafora in me non ha rilevanza. La similitudine e' un modo
di andar dentro alla cosa, di schiuderla tutta all'evidenza dello
sguardo. Per questo non esistono reperti ma "potenze".
Nell'atto dello scrivere cade nell'hic et nunc del testo quello
che occorre. Ceriani. Il che equivale, grosso modo, a
riaffermare quell'ideale di anonimia di cui mi parlavi poco fa.
Sai, mi torna alla mente Pieter Bruegel il vecchio e il suo "La
caduta di Icaro". Il dramma di Icaro e' visto - e questa
e' la lezione del grande fiammingo - sullo stesso piano di altri
eventi più minutamente terrestri. In Bruegel poi il flusso
dei ritmi (anche nelle sue opere più maestosamente costipate)
e' sempre governato da ferree leggi. Vi predomina la paratassi,
il flusso elocutorio prende la strada ipnotica dell'elencazione.
"Il trionfo della morte", in fondo, e' un moderno Libro
dei Numeri. Ma questo lo si può pensare anche del "Trittico
delle delizie" o del Polittico di Isenheim. A proposito
di Grünewald: la figura del Giobbe "rongneux",
dal ventre deforme e idropico, dal naso cadente come un fico
marcio, coperto di lividissimi eczemi, che appare nella "Tentazione
di Sant'Antonio", e di cui ci parla Guido Ceronetti - e'
figura che mi ossessiona. Anzi dice Ceronetti di Giobbe: "affetto
de la lepre des Grecs, dicte du vulgaire mal sainct Main,
qui est une rongne (Ambroise Paré); ma il mal sainct
Main e' tra i nomi medievali del mal venereo nelle sue più
varie manifestazioni, elencati da Buret in "Le Gros Mal
du Moyen Age et la syphilis actuelle" (Paris, 1894)".
Ora, Arthur Rimbaud e' un moderno Giobbe, segnato dal terribile
morbo. E Franco Brevini, introducendo il tuo lavoro, parla -
proprio a proposito di una frase del medesimo - di "attraversamento
delle tenebre", di cui un nostro geniale saggista, A. M.
Ripellino, ci dice a proposito di Vladimìr Holan (l'altra
anta della suddetta diarchia e' Frantisek Halas). Holan e' un
poeta che amo molto, ed e' anch'egli un Giobbe nostro contemporaneo. Scataglini. Senza le riflessioni di Simon Weil
sulla sofferenza penale avrei scritto "carcere demolito"?
Senza i "Minima moralia" di adorno e i saggi di Benjamin
sulla critica della violenza e sul dramma barocco tedesco avrei
scritto "Carta laniena"? C'e' sempre un dato d'esperienza
che riaffiora d'improvviso e attraverso un sapere svela il suo
contenuto di verità nella figura di un commosso pensare.
Nel primo testo il male e' la disgrazia e la ventura degli oggetti
(e degli uomini decaduti ad oggetti). Nel secondo e' la contaminazione
di storia e di mito: ovvero, l'irrazionalità della storia
come ritorno del sempre uguale (segno fato patema/ a mentovà
l'istesso). Ma non avrei mai scritto una poesia sul carcere se
quella istituzione non me l'avessero resa famigliare i miei parenti. Ceriani. Penso a certi tuoi staccati atonali (il bucranio lo e') e a quanto Brecht diceva a proposito del secco, ignobile lessico dell'economia dialettica. Il fine della poesia che amo e' esplorare possibilità ritmiche che tenacemente contestino la melodia. non ultimo il carattere di un metodo di folgorante meccanicità che miri a raffreddare ogni apice emotivo. In questo senso la scelta dell'arcaismo da te attuata e' scelta che vuole invece disfarsi del dato d'esperienza. Scataglini. La lettura che tu fai del mio lavoro affascina e la sento perfettamente co'nsona alle sue strutture formali. La mia insistenza sul dato d'esperienza nasce dall'esigenza di riallogare sempre la poesia all'hic et nunc dell'atto creativo, in cui essa e' permeata delle ragioni esistenziali che la fondano. Ceriani. Oggi si assiste forse alla più grave crisi mai patita dai dialetti. Molte parlate sono cadute in disuso e tuttavia alcune delle personalità più originali emerse in questi ultimi anni usano i dialetti, in alcuni casi parlate decisamente periferiche. Tutto questo accentua l'impressione che il ricorso ai dialetti sia dovuto al fatto che - col loro progressivo disfacimento, con la loro estinzione - cresca di pari passo, e fisiologicamente quasi, quanto di liturgico, di rituale, in essi naturalmente si intreccia alla più prepotente istintualità. Tu, del resto, intitoli un tuo scritto teorico "La cerimoniosa mascherata". Qual e' la tua posizione nei confronti della questione dialettale? Scataglini. Io sulla sorte dei dialetti non voglio dire una parola. Tempo fa Pino Paioni mi chiese quale fosse il sentimento che avevo della lingua. Cincischiai poche frasi risicate. Oggi gli direi sobriamente: il sentimento della privazione. E questo sentimento solo il dialetto può esprimerlo.
______________________ (dicembre 1988)
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